CATTIVI PER SEMPRE? RIFLESSIONI DALLA CASA CIRCONDARIALE DI PADOVA

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NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER – CON GIULIA SCHIOPPETTO, CRIMINOLOGA E PSICOLOGA INVESTIGATIVA

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In questa puntata di NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER, la criminologa Giulia Schioppetto ci introduce all’interno della Casa di Reclusione di Padova, attraverso le testimonianze di alcuni detenuti condannati al “fine pena mai”. Giovani ergastolani che non usciranno mai dal carcere.

“Un giovane ergastolano ogni giorno vive il giorno più brutto della sua vita . Che senso ha studiare, mettersi in discussione, confrontarsi, se già sai che finirai tutta la tua vita in carcere?” racconta Giuliano, condannato all’ergastolo all’età di 22 anni . E continua: “Tutte le persone cambiano, non solo i detenuti. Una persona può essere aggressiva a vent’anni e diventare riflessiva a trenta. Invece un ergastolano non può cambiare, perché sarà per tutta la vita quella persona che ha commesso un reato a vent’anni. Che senso ha tenere una persona in carcere dopo che è cambiata totalmente?”.

Le parole di Giuliano rappresentano la sintesi di un dilemma etico a cui, ancora oggi, la nostra “progredita società democratica” non ha trovato una soluzione. Da una parte c’è la legittima esigenza di comminare pene detentive nei confronti di quanti commettono “un danno” nei confronti delle vittime e della società. Dall’altra c’è l’esigenza di recuperare l’individuo che ha commesso un fatto criminoso, che quando avrà scontato il suo debito con la società si troverà di nuovo a vivere all’interno della comunità di cittadini a cui appartiene. Dovremmo, quindi, chiederci come vogliamo che queste persone tornino a vivere in mezzo a noi. Poi ci sono i casi come quello di Giuliano, che in ragione di uno sbaglio commesso in giovane età sarà privato della libertà per il resto dei suoi giorni.

E’ questa la nostra idea di democrazia e di società? Siamo certi che, al di là del crimine efferato che una persona può commettere, non ci sia alcuna redenzione per essa? O forse siamo noi a non volere che ciò accada, convinti che alla morte di una persona innocente debba corrispondere la sofferenza a vita del colpevole? In quale visione di vita ci riconosciamo? Quale modello di società ci rappresenta?

Da questo punto di vista, esiste un “diritto alla speranza”, la possibilità di riscattarci dal male fatto? Elton è un ragazzo che per diverso tempo si è trovato a passare ogni giorno in bicicletta davanti al carcere di Padova, ripetendosi che lui non sarebbe mai finito in un posto del genere. Elton, oggi si trova a scontare una pena severa proprio in quel carcere, a causa di una rissa finita con un morto. Siamo veramente convinti che certe cose a noi non accadranno mai? Eppure – ricorda Giulia Schioppetto – il “rischio ambientale” è un fattore determinante, non controllabile, che può farci sfuggire la situazione di mano. Siamo soliti pensare alla dinamica di un omicidio come ad un “raptus” che arriva all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Quasi mai è così. Il reato – ci spiega la dr.ssa Schioppetto – è determinato da “lenti e continui scivolamenti”, da piccole scelte quotidiane, convenzioni che arrivano a farti perdere il controllo. Da quel momento la linea tra il Bene e il Male, si assottiglia fino a toccarsi.

Tommaso è un uomo sulla cinquantina che si trova in carcere sottoposto al regime del 41-bis, il c.d. carcere duro. La sua vita fuori dal carcere, a Reggio Calabria, è stata fianco a fianco alla delinquenza. “Il preside della nostra scuola” racconta Tommaso “ il martedì faceva uscire la nostra classe un’ora prima, perchè quasi tutti noi avevamo qualcuno della famiglia in carcere e quel giorno si svolgevano i colloqui con i parenti”. Quando si cresce in queste condizioni è facile che si crei una sorta di dipendenza dalla delinquenza. “Eravamo soldati che andavamo in guerra” dice Tommaso. E ancora: “Sono cresciuto pensando di avere un debito con quelle persone”.

Antonio, invece, è in carcere da 24 anni. Anche lui è nato in Calabria. All’età di otto anni fu tolto dalla scuola e portato in un montagna a badare ad un gregge di pecore. Per anni non si è mai mosso da quel posto. Da bambino il suo sogno nel cassetto era quello di avere un gregge tutto suo. Poi a 16 anni è andato a Milano a lavorare per una ditta edile. A 18 anni il primo arresto, per il furto di un motorino.

E’ interessante notare come i detenuti percepiscano se stessi. “Non riesci a pensare alle vittime se tu stesso ti senti una vittima” dice uno di loro. Molti detenuti, infatti, ammettono di essersi sentiti per molto tempo delle “vittime”, anche in carcere. Vittime del sistema. Vittime di una vita difficile, di una società che li ha abbandonati, di tribunali e magistrati che non li hanno capiti. In questo caso il sentirsi “vittima” racchiude in sé un profondo senso di ingiustizia, per non avere avuto un’alternativa di vita.

Attraverso percorsi di consapevolezza e recupero svolti all’interno delle carceri dai criminologi, da diversi operatori e da associazioni, Antonio, Tommaso e Giuliano hanno smesso di sentirsi delle vittime, e compreso il senso e le conseguenze dei crimini che hanno commesso. Oggi fanno parte di progetti rieducativi, lavorano per la redazione di Ristretti Orizzonti e fanno parte del progetto “scuola carcere”, realizzato dall’associazione Granello di Senape. Questi detenuti raccontano la loro vita ai ragazzi delle scuole superiori, come percorso personale ma anche per spronarli a stare attenti, ad anticipare le conseguenze di ciò che faranno. A fare quello che a loro non è riuscito, fermarsi per tempo. Si chiama revisione critica del passato deviante – ci spiega la dr.ssa Schioppetto – ed è la chiave che porta al cambiamento.

Ma quale cambiamento può esserci per una persona che non potrà mai più uscire dal carcere? A questo punto chiediamoci se le Istituzioni, la società, se noi stessi vogliamo realmente che questi individui si reintegrino nella società.

Prima abbiamo accennato alla condizione del “sentirsi delle vittime”. In questa società, per come è stata impostata, siamo diventati tutti ( o quasi) delle “vittime”, costretti a convivere con un senso di impotenza e ingiustizia ogni giorno delle nostre vite. Impotenza nei confronti di una vita che non ci appaga. Una vita di sacrifici, che a volte ci sembrano insopportabili e di cui in fondo non ne comprendiamo lo scopo. Vittime di città difficili, dove anche fare una passeggiata o prendere un autobus per recarsi a lavoro può essere pericoloso. Oppure essere costretti a subire impotenti i soprusi dei più forti o di chi ha il controllo sulle nostre vite, finché non cominciano a sentire una voce che sussurra nel nostro orecchio che forse “è meglio rubare o delinquere che comportarsi bene e rispettare le regole”.

In una società come questa le “vittime” non si vedono tra loro, non si riconoscono, troppo occupate a sopravvivere per osservare e comprendere le tragedie di chi gli sta accanto. E’ proprio questo il dramma. Noi abbiamo smesso di vederci. La rabbia fa il resto. Ed è la rabbia, che deriva da un profondo senso di impotenza, a farci dire: “Hai ucciso, adesso devi pagare e soffrire fino alla morte”. Tuttavia, questo pensiero (legittimo) può appartenere ad un individuo, non alle Istituzioni che sono chiamate a ricercare il “bene comune”, spogliandosi dei pregiudizi e delle limitazioni che appartengono alla sfera personale degli individui. Purtroppo, una politica protesa soltanto ad appagare i bisogni del proprio elettorato per non perdere consensi, finisce per parlare alla “pancia dei sui elettori”, a rifocillare paure anziché rassicurarle. Una politica che finisce per assecondare gli istinti di sopravvivenza personale, smarrisce il senso del suo agire e mette in pericolo la salvaguardia della società.

In questo podcast, Giulia Schioppetto, ci mette davanti ad uno specchio. Di fronte troveremo le nostre coscienze pronte ad interrogarci, alla ricerca di risposte difficili e mai scontate. Buon ascolto!

Cristina Del Tutto, direttore

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